SETTIMANA LITURGICA NAZIONALE

AUTORE: ANDREA TORNIELLI
FONTE: LA STAMPA ON LINE
CITTÀ DEL VATICANO

L’importante discorso pronunciato la mattina del 24 agosto da Papa Francesco durante l’udienza ai partecipanti alla Settimana Liturgica Nazionale , a 70 anni dalla nascita del Centro di Azione Liturgica, è il secondo intervento significativo della settimana, dopo il messaggio per la Giornata del Migrante e del Rifugiato. Mentre il primo era prevedibilmente destinato a suscitare interesse, commenti e polemiche, il secondo è rimasto confinato nel dibattito infra-ecclesiale, pur trattandosi di un documento che contiene alcuni punti fermi di particolare importanza.

Francesco definisce «con autorità magisteriale» la riforma liturgica attuata nel post-concilio e approvata da Paolo VI come «irreversibile». Ciò non significa che tutto, negli ultimi decenni, sia andato per il verso giusto, né che la riforma sia stata interamente recepita. Infatti Papa Bergoglio osserva: «E oggi c’è ancora da lavorare in questa direzione, in particolare riscoprendo i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano». Parole che sembrano riferirsi sia ai non infrequenti abusi liturgici («prassi che la sfigurano»), sia alle unilaterali letture di segno tradizionalista che vorrebbero gettar via il bambino con l’acqua sporca e cristallizzano uno stadio della liturgia cattolica (il messale anteriore alla riforma di Pio XII del 1954) definendola «messa di sempre» e considerandola di fatto irreformabile.

Papa Francesco è stato chiaro anche a proposito di un altro punto. Ha infatti affermato: «Non si tratta di ripensare la riforma rivedendone le scelte, quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, anche tramite la documentazione storica, come di interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che la regola». In questo modo, pur senza citare l’espressione, dice di no a una «riforma della riforma» liturgica, come auspicato per anni da alcuni settori ecclesiali.

Le parole «riforma della riforma» erano state usate dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, che nel libro intervista con Peter Seewald Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio (2001) aveva invitato a «sconfiggere la tentazione di un fare dispotico, che concepisce la liturgia come oggetto di proprietà dell’uomo, e risvegliare il senso interiore del sacro. Il secondo passo consisterà nel valutare dove sono stati apportati tagli troppo drastici, per ripristinare in modo chiaro e organico le connessioni con la storia passata. Io stesso ho parlato in questo senso di “riforma della riforma”. Ma, a mio avviso, tutto ciò deve essere preceduto da un processo educativo che argini la tendenza a mortificare la liturgia con invenzioni personali». Come si vede, Ratzinger cardinale Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, auspicava una «riforma della riforma», ma precisava già 16 anni fa che questa dovesse essere preceduta da un «processo educativo».

Durante il suo pontificato (2005-2013), divenuto Benedetto XVI, ha però lasciato cadere questa espressione, invitando anche l’allora Prefetto della Congregazione del Culto Divino, il cardinale spagnolo da lui nominato Antonio Cañizares Llovera, a non utilizzarla. Fare nuovi cambiamenti dall’alto, per decreto, senza che siano preceduti da un «processo educativo» dal basso, sarebbe stato inutile e persino controproducente. Per questo Papa Ratzinger ha scelto di comunicare con l’esempio – sottolineando la centralità dell’eucaristia e dell’adorazione – ma senza imposizioni, dato che lui stesso aveva fatto notare come nuove riforme e cambiamenti in campo di liturgico avrebbero creato confusione nel popolo di Dio.

La decisione liturgica più significativa del suo pontificato è stata quella di concedere, con il motu proprio Summorum pontificum (2007), la liberalizzazione del messale di Giovanni XXIII, il messale usato prima del Concilio e durante il Concilio Vaticano II. Conoscendo le perplessità che la sua iniziativa poteva destare, Papa Ratzinger ha cercato di prevenirle con la lettera ai vescovi, nella quale spiegava che il nuovo messale scaturito dalla riforma liturgica post-conciliare «è e rimane la forma normale» per celebrare la messa. Quella antica, osservava Benedetto XVI, altro non è che una forma straordinaria dello stesso rito romano. Nell’intenzione del Pontefice la liberalizzazione doveva servire a un arricchimento reciproco tra le due forme del rito, valorizzando da una parte la sottolineatura della sacralità e della verticalità della forma preconciliare, dall’altra la ricchezza delle Scritture e la partecipazione dei fedeli della forma post-conciliare.

Bisogna ammettere che ciò non è avvenuto, anche a motivo di chiusure e di rivendicazioni su ambo i fronti. Anche in questo campo non sono mancate disobbedienze, abusi e fissazioni: c’è chi ha disatteso l’indicazione del Pontefice mettendo restrizioni e anche opponendo dinieghi alle richieste dei fedeli legati al rito antico. E c’è chi, dall’altra parte, disobbedendo alle indicazioni di Benedetto, invece di utilizzare il messale del 1962, ha ristampato e usato quello in vigore prima del 1954, omettendo dunque le riforme di Pio XII. Lo stesso Papa Ratzinger, autore del motu proprio liberalizzante, non ha mai celebrato pubblicamente secondo l’antico messale.

Oggi il suo successore Francesco ricorda innanzitutto il legame profondo e inscindibile tra Concilio Vaticano II e riforma liturgica, spiegando ancora una volta come i due eventi non siano «fioriti improvvisamente ma a lungo preparati», con un processo che va da san Pio X, passa per Pio XII e arriva attraverso l’assise conciliare fino al beato Paolo VI. Un percorso confermato e suggellato anche dai successori di Papa Montini.

Francesco ricorda la prima costituzione conciliare ad essere approvata dai padri del Vaticano II, la Sacrosanctum Concilium, «le cui linee di riforma generale rispondevano a bisogni reali e alla concreta speranza di un rinnovamento: si desiderava una liturgia viva per una Chiesa tutta vivificata dai misteri celebrati. Si trattava di esprimere in maniera rinnovata la perenne vitalità della Chiesa in preghiera, avendo premura “affinché i fedeli non assistano come estranei e muti spettatori a questo mistero di fede, ma, comprendendolo bene per mezzo dei riti e delle preghiere, partecipino all’azione sacra consapevolmente, piamente, attivamenteˮ».

E ricorda che la ricezione delle riforme liturgiche post-conciliari non è ancora avvenuta pienamente: «I libri riformati a norma dei decreti del Vaticano II hanno innestato un processo che richiede tempo, ricezione fedele, obbedienza pratica, sapiente attuazione celebrativa da parte, prima, dei ministri ordinati, ma anche degli altri ministri, dei cantori e di tutti coloro che partecipano alla liturgia. In verità, lo sappiamo, l’educazione liturgica di Pastori e fedeli è una sfida da affrontare sempre di nuovo». Papa Bergoglio, con le parole pronunciate da Paolo VI un anno prima della morte, ribadisce che «è venuto il momento, ora, di lasciar cadere definitivamente i fermenti disgregatori, ugualmente perniciosi nell’un senso e nell’altro, e di applicare integralmente nei suoi giusti criteri ispiratori, la riforma da Noi approvata in applicazione ai voti del Concilio». E indica anche la direzione su cui intende lavorare durante il suo pontificato, che è quella di riscoprire i motivi delle decisioni compiute, per «interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che regola» la riforma liturgica.

Infine, entrando nel merito del tema trattato durante la Settimana Liturgica Nazionale, Francesco ha sottolineato che «la liturgia è “viva” in ragione della presenza viva di Colui che “morendo ha distrutto la morte e risorgendo ha ridato a noi la vitaˮ. Senza la presenza reale del mistero di Cristo, non vi è nessuna vitalità liturgica. Come senza battito cardiaco non c’è vita umana, così senza il cuore pulsante di Cristo non esiste azione liturgica. Ciò che definisce la liturgia è infatti l’attuazione, nei santi segni, del sacerdozio di Gesù Cristo, ossia l’offerta della sua vita fino a stendere le braccia sulla croce, sacerdozio reso presente in modo costante attraverso i riti e le preghiere, massimamente nel suo Corpo e Sangue, ma anche nella persona del sacerdote, nella proclamazione della Parola di Dio, nell’assemblea radunata in preghiera nel suo nome». Parole sufficientemente chiare a proposito della centralità eucaristica.

L’altra sottolineatura peculiare del Pontefice è quella riguardante il popolo di Dio: «Per sua natura la liturgia è infatti “popolare” e non clericale, essendo – come insegna l’etimologia – un’azione per il popolo, ma anche del popolo. Come ricordano tante preghiere liturgiche, è l’azione che Dio stesso compie in favore del suo popolo, ma anche l’azione del popolo che ascolta Dio che parla e reagisce lodandolo, invocandolo, accogliendo l’inesauribile sorgente di vita e di misericordia che fluisce dai santi segni. La Chiesa in preghiera raccoglie tutti coloro che hanno il cuore in ascolto del Vangelo, senza scartare nessuno: sono convocati piccoli e grandi, ricchi e poveri, fanciulli e anziani, sani e malati, giusti e peccatori… La portata “popolare” della liturgia ci ricorda che essa è inclusiva e non esclusiva… Non dobbiamo dimenticare, dunque, che è anzittutto la liturgia ad esprimere la pietas di tutto il popolo di Dio, prolungata poi da pii esercizi e devozioni che conosciamo con il nome di pietà popolare, da valorizzare e incoraggiare in armonia con la liturgia». Anche in questo caso sottolineature per nulla scontate visto il riemergere di un certo neo- clericalismo tra le cui manifestazioni c’è non soltanto il formalismo ma anche l’accentuazione della “separazioneˮ tra sacerdote e popolo.

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Don Andrea Contrasti